Critica

Dino Villani

Non soltanto per amor di contrasto, ma per una sentita e diffusa esigenza dello spirito, stiamo tornando al sentimento.

Basterebbe a dimostrarlo l'atteggiamento dei giovani conquistati dalla musica classica e spinti a cercare un modo di vivere che respinge il tipo di civiltà che ci siamo creati con la ricerca del sempre più comodo. La vita traumatizzante, densa di imprevisti che sono per la maggior parte spiacevoli, ci spinge a cercare qualche angolo riposante nel quale ci si possa rifugiare per restare un po' soli con noi stessi e magari rincorrere dei sogni.


I più deboli e gli scervellati, lo cercano nella droga, ma noi possiamo trovarlo concedendoci evasioni in qualche località isolata, ascoltando della buona musica, leggendo un libro leggero ma sapido, lasciandoci prendere dalla suggestione di un dipinto sereno e riposante.

Con certi fenomeni recenti in questo settore, mostrano come si sia giunti ad amare anche la pittura degli ingenui perché non pone problemi e conduce di solito, un discorso elementare, in un mondo in buona parte sognato.

La pittura di Paola Mayer Pozzi, ha quindi una posizione privilegiata nel momento che attraversiamo, poiché, senza abbassare il suo linguaggio per farsi intendere, valendosi di una tecnica e di un mestiere semplici ma raffinati, tocca le corde del sentimento fino a fare qualche volta arrivare alla commozione. L'artista è entrata a buon diritto nel gruppo dei "luministi" perché la sua pittura conta sulla luce che fa lievitare le cose. Un paesaggio, qualche albero scheletrico, un mazzo di fiori trasfigurati in senso poetico con squisita sensibilità e in modo aderente, tanto da comunicare agli altri, la sua commozione.

La dominante grigio-azzurra che avvolge e permea il mondo di questa artista; l'atmosfera di perla che tiene in sospensione un pulviscolo carico di luce; i grandi cieli ingombri di nubi che vanno, spinte dalla brezza, imprimono un carattere che trascina a sognare, a vedere le cose trasfigurate in modo da porre in evidenza i contenuti poetici. Paola Mayer Pozzi, dipinge raccogliendo qualche spunto con uno schizzo e poi, imposta il quadro nello studio e lo conduce lasciandosi guidare dalla fantasia.

Reinventa un paesaggio, spingendo avanti a mano a mano la fattura con la gioia di scoprire centimetro per centimetro, il segreto della natura che si rivela dal di dentro. Si sente che dipinge con trasporto ed una gioia profonda anche se velata sempre da un po' di malinconia. La sua non può quindi essere che una pittura, quasi sempre attenta, che calcola ogni impasto, che misura ogni accordo, che è di fantasia ma che alla fantasia concede uno spazio assai limitato perché non arrivi a turbare il sacro equilibrio del reale.

Chi osserva con attenzione questi dipinti, si accorge che la tavolozza di cui l'artista si vale, è assai più ricca di quanto sembri. L'impressione di monocromatismo, sia pure ricco di passaggi e di varianti, è soltanto apparente: le note di colore vario, ci sono, ma agiscono in sordina, trasformate dall'artificio dell'operatrice, a far quasi da sottofondo. Assai di rado si spingono avanti e squillano, come arrivano a farsi sentire in Omiccioli, per esempio: qui sono presenti poiché costituiscono una realtà insopprimibile, ma vengono sopraffatte da una atmosfera sottile, ovattata, carica di poesia crepuscolare.

Abbiamo fatto cenno ai cieli di Paola Mayer Pozzi: cieli personali che hanno di solito un ampio spazio nel quadro, quando non arrivano addirittura a dominare il paesaggio.


Non sono mai cieli sereni, anzi sono qualche volta carichi fino a sembrar un simbolo di minaccia che sovrasta costantemente le cose. Ma sono risolti con lievità, senza forti contrasti di tono, quasi fossero soffiati, e lasciano sentire che sotto c'è l'azzurro, il sereno nel quale possiamo sperare anche se difficilmente potremo vederlo limpido.

La pittrice, che è bolognese, ha studiato a Bologna, dove la scuola di Morandi l'ha indirizzata verso una pittura preziosa: ha maturato i suoi mezzi in Lombardia, a Milano, dove il grigio è signore del paesaggio per buona parte dell'anno e finisce per avere una sua poesia: quella che Paola Mayer Pozzi riesce a scaldare col sentimento di un animo gentile che spoglia le cose della loro materialità fisica, per fare apparire di esse soltanto il simbolo: quelle visioni che escono dalla nuvola grigio azzurra dei sogni.

Mario Portalupi

Da quel che si vede Paola Mayer Pozzi è pittrice che dà tutta la sua attività al paesaggio e all'interpretazione di fiori.

Questi, o son visti da vicino come ci si chinasse sopra, o son visti in vasi dai quali escono alti reggendo trionfalmente le corolle a semisfera, lievi come piumini da cipria, rosee o azzurre pallide.

Si tratta di quelle mezze tinte - a spiegarmi - per ottenere le quali opera più la sensibilità personale… che il pennello.

Il paesaggio è pure dipinto sui mezzi toni grigi, difficile da conseguire pittoricamente, così, nella loro leggerezza quasi vaporosa.

È chiaro che dipingendo Paola Mayer Pozzi per arie tonalmente "umide", parrebbe rifiatanti alla guisa dei campi lombardi d'autunno, il suo paesaggio di spiagge nordiche, di dossi montani magari nevosi non può non essere lieve: talora trasognato, talora vagamente spettrale. Comunque gentile, mai affannato.

Giovanna Pascoli Piccinini

Succede anche ai grandissimi artisti - dopo un lungo lasso di vita - di fermarsi e di iniziare un rigoroso esame di tutte le opere prodotte. E, in questa specie di "verifica", in questa completa valutazione retrospettiva, si traggono, alla fine i conti.

È una pausa ricca di umori, una domanda intima che riceve la risposta a spron battuto. E, il più delle volte, il riandare a ritroso nel tempo è positivo e appagante.



E, insieme è un invito a proseguire, a perfezionare vieppiù, a penetrare nel limo della vita.

Quella di Paola Mayer Pozzi è lunga panoramica pittorica di un lungo viaggio intrapreso all'insegna di un racconto che avvince ad affascina: il colloquio con la natura.

Siamo nel trentesimo anno della sua produzione.

Ci è sembrato un atto doveroso.

Quando Paola Mayer Pozzi ha intrapreso l'arte della pittura, davanti ai suoi occhi c'era una gamma immensa di scuole, di temperamenti, di miti.

Bisognava vagliare una voce e lei è andata a quella più poetica, quasi a cotè del surrealismo, a una voce difficile da seguire e da sostenere: la luminosa labile scuola dei Chiaristi lombardi.

A giudicare, oggi, poche sono state le variazioni, d'allora; a un certo fare di ricordo impressionista, è andata sempre più rarefacendo la materia in un progressivo sfaldamento dell'immagine, in nome del colore puro. Chi sceglie il colore, rifiuta di per sé l'indirizzo razionale del dipingere: si lascia andare, invece, al fluire delle sensazioni, delle emozioni. Il colore diventa musica, come la intendeva Gauguin e il cielo, gli alberi, le case, tutto si trasfigura, sotto l'abbandono, al colore. Lo stesso Cèzanne amava proprio "costruire con il colore".

La scioltezza del colore della Mayer Pozzi, brillante e pastoso, inonda sempre tutta la composizione, tenuta solitamente sui registri del blu cobalto, dei rosa accesi, affiancati con una freschezza di contrappunto, ai verdi teneri e lividi. Ne viene esaltata la natura stessa del soggetto, in una sorta di trapasso dal godimento fisso al godimento spirituale. Ancora: ci sono paesaggi tutti permeati di luci liquide cui dà nerbo e unità lo stendersi della materia, secondo sottili schemi mentali che ne riscattano l'informe primitivo sviluppo.


In quello che chiameremo "il suo realismo magico" in un paesaggio fervido di fremiti e di fermenti emotivi dove nuvole e cieli tempestosi premono su distese dalle zolle sconvolte e dalle masse arboree indistinte, dove il fantomatico bianco di poche case crea delle radure inquietanti, è il colore che investe tutti gli elementi del quadro, raccogliendo in un'unità gli spunti figurali, in una coerenza di tessitura cromatica che sviluppa la spazialità dell'immagine, pur disciplinandola con una rigorosa compositività.

E non dimentichiamo i suoi fiori. Un momento di idillio dello spirito. I suoi sono fiori catturati dall'invisibile tra azzurro di cielo e lattiginosità di nuvole, fiori che nascono, si può dire dal nulla, il cui contorno è di una evanescenza quasi del tutto assoluta. Così come i suoi paesaggi "costruiti" dall'artista sempre in chiave interiore.

Là dove tanti pittori si limitano a esprimere la natura, ella la interpreta, non solo, ma le trasfonde luce, un pizzico di magia, un balenare di tinte quasi ne estraesse l'anima: è la vittoria dello spirito perché nelle sue opere si trova sempre, non soltanto vitalità, ma specifico sentimento, fuso in una tecnica personalissima.

A me - lo confesso - piace il colore di gusto un po' fauvista che domina la tela: il colore intenso, a volte drammatico che trasmette, all'osservatore, immediatamente, il messaggio pittorico. Piace, ancora, quella sottile ricerca dell'essenzialità che si trova nei cieli siderali blu, nelle terre rossicce, nelle distese d'acqua ora sonnacchiose, ora furenti.

Perché, in ultima analisi, questa è la vera essenza della pittura di Paola Mayer Pozzi: una favola ritmica nella essenziale espressività lirica, armonizzata dalla poesia, dove la sensazione è suggerita dall'armonia tonale e dalla commozione, infine, è raggiunta da un equilibrio d'insieme dall'eccezionale stesura.


Carlo Franza

Paola Mayer Pozzi offre all'occhio dello spettatore la capacità di assorbire visivamente opere più espressive, nel senso che si adeguano a un clima pre-informale, ma anche opere che toccano la condizione di sensibilità e di conoscenza profonda dell'arte.

Pittura-pittura quella della Mayer, anche quando nasce come estranea ed esteriore, reinterpretata, rivissuta, scoperta in ogni angolo.

Plasma di sé l'intero racconto pittorico: le cose, i luoghi, le atmosfere. Il colore è trasparentissimo, tipicamente lombardo, nel clima della scuola "chiarista" di Del Bon e De Rocchi, ma anche di De Amicis: un'atmosfera rarefatta che nel colore trova scelta felice,densa di significati sottintesi,sospesi a mezz'aria, luci e immagini suggestive.

La sua pittura non ha limiti perché innerva la natura nel sogno e nel dolore cosmico, riassume i contatti tra spirito e materia, in una lettura più profonda e più filosofica delle opere precisa i modi e gli svolgimenti della dimensione vera della vita, in cui sentire il palmo della natura,le sue mille rifrazioni, il tempo perduto, la storia.

Ed allora si capirà come queste opere della Mayer, lontane dallo sperimentalismo, si muovano come "racconto", senso di viaggio, dove tutta la natura cresce per rinnovare il significato della vita, ch'è poi il significato primo dell'arte.

Il secondo chiarismo

Gli echi del primo chiarismo respirano anche nel secondo dopoguerra e nelle vicende storiche più interessanti.De Rocchi muore a Milano nel '78 dopo aver continuato a dipingere, guardando a Bonnard, secondo un proprio lirismo lombardo.

Goliardo Padova muore a Casalmaggiore nel '79 dopo un percorso ultimo sul versante naturalistico e un'ascendenza visionaria di tenui colori unita ad un'atmosfera fatta di acque.

Del Bon era già morto nel '52, mentre il buon caro De Amicis, il solido pittore, cui pure avevo presentato una mostra singolare proprio al mio arrivo a Milano nel 1980, muore nel 1987. Quest'ultimo aveva lavorato sulla composizione, presa fra forma e colore e sulle trasparenze tonali. Birolli era morto sempre a Milano, nel 1959.

Una serie di datazioni che danno idea sul clima che ancora segna Milano fra gli anni settanta e ottanta, e sulla grande attenzione che la Galleria Le Arcate, diretta da quel vivace gallerista ch'è stato Aldo Rabolini, dedica ai chiaristi, che è possibile incontrare ogni sera in conversazione. Tra questi, tra gli ultimi, Dino Lanaro, professore a Brera alla cattedra di pittura, e un manipolo di seguaci, di attenti giovani che guardano, osservano, proseguono gli ideali, le atmosfere, gli intenti.

E naturalmente a questa storicizzazione d'un secondo chiarismo va pure ricondotto il momento degli "ultimi naturalisti", quegli stessi che l'illustre professore Francesco Arcangeli, bolognese, descrisse in "Paragone" (n.59) nel novembre del '54.

La natura, le umili cose, il paesaggio, entrano per un certo verso in questi artisti che partecipano al ciclo naturale delle stagioni, al rinnovarsi delle piante, della terra, dei paesaggi. Nel '75 era nato a Milano il manifesto dei "luministi padani" che vede Zampieri fra i firmatari; ed io stesso dedico negli anni ottanta una monografia pubblicata dalla Comed che ha per titolo "Chiaristi e luministi". Sorprendentemente, confesso, che per me che arrivavo da Roma, a Milano nel gennaio dell'80, la luce lombarda, il chiarore diafano e non solare, mi aveva lasciato sorpreso. Ero amico di tanti chiaristi, di De Amicis, per citare un nome storico, e Lanaro, e dei nuovi che si affacciavano sulla strada, ecco Oreste Jannelli, Silvio Zampieri, Giorgio Reggio, fino alla Paola Mayer Pozzi che dirigerà, oltrechè essere essa stessa fine pittrice chiarista, la galleria Treves, che era in Via Palermo, angolo Largo Treves, e che è stata aperta fino a qualche anno fa, primi anni novanta. Il 16 novembre 1991 è la data della conferenza che tengo al Circolo della Stampa di Milano sul tema "Il secondo Chiarismo e la pittura di Silvio Zampieri".

In realtà è lo Zampieri che ha prima conoscenza d'appartenere a un movimento, a farsi padrino, e prosecutore d'un clima tutto lombardo-veneto, e romagnolo anche. Il secondo chiarismo come momento storico si sviluppa nel secondo dopoguerra con gli stessi intenti e le stesse motivazioni morali ed estetiche del primo movimento; si accentua fra la fine degli anni sessanta e gli anni settanta ad opera di nomi illustri. Zampieri in special modo si pone come testa di ponte fra una visione morale strettamente laica e l'altra di matrice cattolica cui appartiene il Reggio. E lo stesso Lomasto si adegua a quel comparto informale che si poté leggere fra gli ultimi naturalisti che dettero spazio al mondo sfrangiato, con gli acquerelli descrittivi di terra e cielo, mentre per i ritratti il dato malinconico segnava la mobilità esistenziale.

Tedeschi veronese di nascita, sulle tracce della pittura veneta e buranella, affida il suo paesaggio a un clima di abbandono poetico e di sogno, sollevando il plastico realismo in una lievitazione di stupore infantile.

Della nuova squadra chiarista fa ancora parte il Massimo Lomasto, piemontese di nascita ma attivo a Milano, dove alla scuola di Walter Lazzaro prima e di Osmo Visuri poi, ha ricavato i segni e i toni di magia, di malinconia, e dove il ritratto rivive in uno stato di pascoliana memoria.


Enzo Fabiani

Quella "bella Lombardia coi suoi giardini" che Dino Campana vide e definì come una visione sorprendente (ma chissà in quale mese, e in quale stato d'animo) mi pare il punto di riferimento più costante per la pittrice Paola Mayer Pozzi: anche se poi, parlando di lei, si scopre che i suoi motivi spesso si allacciano a paesaggi inglesi, o addirittura orientali; a misure e vastità, cioè, quasi impensabili per chi non abbia avuto l'occasione di viaggiare in quei Pesi in cui la sottigliezza è caratteristica persino del paesaggio…



I critici che hanno scritto di questa pittrice hanno subito rilevato come quasi sempre i suoi quadri siano animarti, ed insieme ne palpitino, da un sentimento gentile; tuttavia vedendo le sue ultime prove, diverse da quelle qui esposte, non mi sembra fuori luogo parlare, o accennarvi almeno, di una drammaticità che si fa elemento stesso: intendo dire che la solenne nudità di certi paesaggi composti soltanto da mari e cieli, da nuvole e luci tenui eppur inesistenti, non sono soltanto una interpretazione lirica di un golfo o di una spiaggia, bensì proiezioni o derivazioni di una precisa e allarmata coscienza della realtà.

Una coscienza allarmata ed insieme incantata, che per arrivare a quella spogliazione lascia dietro di sé un'infinità di elementi che avrebbero, o avrebbero potuto avere, la funzione di richiamo, di specchio e quindi di sosta. Ed allora avremmo avuto diciamo una descrizione attenta e magari divertita di tutti i motivi che compongono quel paesaggio tipico: e cioè alberi e scogli, acque e barche, albe e tramonti e via dicendo. Qui invece la Mayer Pozzi sembra voler saltare tutto questo (e cioè il richiamo, lo specchio, la sosta) per arrivare a una essenzialità: che essendo tale si manifesta in un qualcosa di disincantato ed insieme preciso, ed esatto.

Ecco dunque che questi paesaggi sono una sorta di volo e di sogno; un volo che in un ceto modo rappresenta se stesso, ovverosia si sostanzia mediante la pittura: la quale, trattandosi di voli e di sogni, deve essere per forza di cose essa stessa leggera e delicata, e gentile: per consonanza. Altrimenti la parola acquisterebbe altro senso, il velo diventerebbe più o meno impedimento, e la raffigurazione dovrebbe farsi espressionistica descrizione; perdendo così la sua essenza ed insieme la sua funzione di allusione, di suggerimento. La Lombardia, si diceva: intensa non come semplice riferimento geografico od orografico; bensì come dimensione dello sguardo, della mente ed infine della fantasia: dimensione grazie alla quale è possibile sentire (e quindi raffigurare nel quadro) la pianura ricca d'alberi, acque e nebbie ed insieme la proiezione sua, meglio sarebbe dire il suono, che si fa montagna di varia forza e coloritura. Ma dopo avere ascoltato dalla pittrice del suo amore per i viaggi specie in Oriente, ecco che un'altra indicazione nasce: e utile molto per capire la raffinatezza con la quale questi motivi sono presentati e realizzati.

È chiaro che ciascun quadro nasce con la propria forza e fisionomia (questo è sempre avvenuto anche ai maestri più insigni), perciò l'uno può dare un accenno, e l'altro fungere da richiamo; questo dare un'indicazione, e l'altro portare avanti l'intuizione, o la sensazione: ma l'importante è che nel lavoro siano sempre presenti e la ricerca e l'ascolto, o il riascolto dell'immagine, del motivo: ed ecco allora che spesso siamo davanti a raffigurazioni in cui molto di quanto vediamo diventa astratto, cioè spoglio e depurato o meglio purificato; diventa una melodia che pare richiamare il crescere dell'erba, lo scorrere della linfa…


Dopo i paesaggi straordinari, eccoci ai fiori che Paola Mayer Pozzi ha dipinto in vari modi, ma che oggi affronta con una volontà tra drammatica e trasfigurante: si veda infatti come essi, i dominatori del quadro, siano spesso investiti da una luce che evidenziandoli dà ad essi come una sovranità, o solennità che si voglia, per cui acquistano una nuova fisionomia, una nuova ed enigmatica forza. Questo dei fiori è certo un capitolo importante nell'attività della pittrice, poiché queste "presenze" le danno modo di esprimersi con squisita sensibilità, ma nello stesso tempo con libertà: sicché non è da ricercare qui il colore naturale, ma da osservare quello inventato, rilevandone le variazioni e le varianti condotte con maestria e con un estro che si affida non già all'effetto ma all'approfondimento, alla consonanza fantasiosa, alla partecipazione che ha sapore, potremmo dire, di prima primavera lombarda…

Una pittura dunque che si affida all'allusione e al suggerimento; un modo di dire o ridire le cose viste con incantamento, ma senza mai dimenticare che i motivi stessi possono avere una forma, e quindi una sostanza poetica, più vasta e più profonda. Sono insomma gli annunci che si fanno inviti; sono note che vogliono farsi musica nell'animo di chi è capace di avvertirne la bellezza e la verità; note e melodie che hanno già una loro legge nel colore…


Lino Cavallari

…la Mayer Pozzi ama le atmosfere indefinite, i contorni velati dalle brume padane, ed è per questo che è alla continua ricerca del fascino dell'inespresso in lunghe passeggiate fra i boschi della Brianza e alla riscoperta dei Navigli, questi nuclei di socialità misera ma schietta, ora in radicale trasformazione.

Senza rifarsi ad alcuna scuola, l'artista esprime in modo lirico malinconie e trasalimenti.

Gastone Breddo

Paola Mayer Pozzi espone le proprie impressioni milanesi, e del clima della metropoli pare non voglia alleggerirsi del fascino di una tenuità coloristica che sta fra la nebbia e il colore dell'aria milanese che è diversa da ogni altra qualunque sia la stagione dell'anno.

Subisce quindi l'emozione degli scorci della vecchia Milano, ma non rinnega l'origine bolognese, il grande respiro della campagna emiliana.

Non ne ripropone la festa dei colori. Si potrebbe dire che la pittura della Mayer Pozzi è come un canto lieve e dolcissimo, che varia di toni e cadenze, ma che resta tuttavia quieto, consolante.

Il paesaggio che ella dipinge è ampio di respiri, solido nell'aspetto, invitante alla riflessione. Cioè un racconto non finito, lasciato in sospeso perché l'osservatore ne continui da sé il procedere, tenendo nella mano dell'artista per restarvi legato da una stessa emozione. I suoi fiori son fiori che sembrano freschi e da toccare.

Pure le composizioni dei soggetti non ricorrono alla varietà cromatica squillante che si è soliti ritrovare nelle nature morte che riproducono fasci di fiori assortiti.

L'abbiamo detto. È un canto di quiete, che pure contiene tormenti intimi, visioni espanse, inviti, promesse.

Che la Mayer Pozzi sa dipingere, al di là della discussione sul taglio delle immagini, i colori, i soggetti, ce lo dimostra particolarmente nel ritratto di un fanciullo i cui tratti hanno la morbidezza della prima età l'atteggiamento quasi remoto di chi non è sopraffatto da pensieri distorti.

Nella corona delle opere predomina un'isola toscana vista dall'aspra terra che la fronteggia. Tra la fascia di terra brulla e la poggiata che sostiene le case è il mare.Un mare placido che dà il tono della serenità all'immagine, mentre il cielo ne dilata il respiro all'infinito.


Vincenzo Castelli

Nelle opere di Paola Mayer Pozzi vanno ammirati quei tocchi di colore che presi separatamente sembravano quasi sconnessi e slegati, pur senza avere il significato di un freddo virtuosismo, sono invece nel contesto della sua paesaggistica, puntualizzati in un loro insieme per creare uno stile personalissimo e indimenticabile, proprio perché formano un insieme di luce e colore.


Il colore è lucente e nel contempo sufficientemente delicato, fino a diventare languido in certi tramonti smorzati da una atmosfera fredda ed annebbiata. La pittrice non indulge, nella sua pittura compendiarla, alla precisione del disegno per dare di più al colore ed al gioco delle luci e delle ombre. Non cercheremo mai nei suoi quadri lo scatto dinamico o la ricerca di effetto, ma ciò che l'artista vuole che siano: modo reale si sentire, di una realtà umile e pratica.

Nei paesaggi della Mayer va ricercato il suo stato d'animo che compensa la relativa povertà dei temi, ed è qui che la sua arte rispecchia quella idealizzazione del vero attraverso la "coscienza mistica" che è la componente prima della sua ricerca.

In ultima analisi è da convenire che le opere della brava pittrice non sono una interpretazione oggettiva della realtà, ma un modo esclusivamente soggettivo che vuole sovrapporsi a quello reale per imporsi con forza all'osservatore.